mercoledì 19 marzo 2025

La Notte dei Falò

Ogni volta che arriva il giorno di San Giuseppe ricordo con dolce nostalgia le notti dei falò del mio paese, Roccamonfina. E da un po' di tempo avevo intenzione di scriverci una storia, un racconto, che mi riportasse a quelle magiche notti di fuochi e chiacchiere, di folclore e sacralità. 
E alla fine un racconto è venuto fuori, e, com'è già capitato con le notti di Halloween, ho deciso di pubblicarlo qui sul blog. 
È una versione leggermente più breve rispetto all'originale (che pubblicherò più in là in una raccolta), ma che non perde un minimo della sua natura.
Ed è una natura ovviamente nera, oscura, perché a me le storie a lieto fine annoiano, e le ho sempre ritenute di una banalità disarmante. Dunque eccovi "La Notte dei Falò", che porterà anche voi, come il sottoscritto, in una notte di marzo di molti, molti anni fa, in un piccolo paese di provincia tra i fuochi dei falò della festa di San Giuseppe. 
E sarà una notte che non farà sconti di nessun tipo. A nessuno.
Ah, il solito avviso: se cercate una bella storia di buoni sentimenti, positiva e che vi faccia sorridere, fermatevi qui. 
Altrimenti... fatelo pure ardere, quel maledetto fuoco.

Guido Pacitto
LA NOTTE DEI FALÒ

  Da bambino amavo la notte di San Giuseppe con i suoi falò a illuminare il paese. Era una notte particolare, quella. Arrivava dopo un’attesa quasi religiosa, dopo una giornata di accumuli di frasche, assi, legna secca e qualcos’altro. C’era sempre anche altro nei roghi della notte dei falò. Io, per esempio, in più di un’occasione vi avevo bruciato piccoli pupazzi e piccoli giochi che non usavo più. Me li portavo nelle tasche e mi avvicinano ai fuochi fino a sentire il caldo sul naso, sulle guance, negli occhi, e poi, mani in tasca, dopo qualche attento sguardo intorno per accertarmi che nessuno stesse lì a guardarmi, me le svuotavo, quelle tasche.
  Già, frasche, legna e qualcos’altro. C’era sempre altro nei falò di San Giuseppe, come quando, in una delle prime notti di falò che ricordo, un ragazzo delle medie ci buttò dentro un gatto. Non si udì un lamento, né un miagolio. Soltanto un tonfo, pluff, e poi un riverbero, come una piccola stella che esplodeva all’interno del fuoco divampante. Nessun lamento, nessun verso, nessun sussulto. Soltanto fuoco. Quella scena mi è rimasta impressa nella mente proprio come marchiata a fuoco, e non nego che, nonostante il ribrezzo che provai in quel momento (avevo sei o sette anni, forse otto), negli anni successivi l’idea di gettare nel fuoco dei falò di San Giuseppe qualcosa di vivo (ho avuto diversi gatti) mi ha sempre stuzzicato. Da bambino quei pensieri mi divertivano e mi schifano allo stesso modo. Oggi, che di quel bambino non vi è più traccia, fanno soltanto provare una profonda malinconia; quanto avrei voglia di tornare a quegli anni, a quelle notti, a quei roghi alimentati da frasche, legna e qualcos’altro.
  Ma delle varie notti di San Giuseppe che ho vissuto me ne ricordo soprattutto una in particolare; e non potrebbe essere diversamente, anche perché fu l’ultima del paese. Avevo undici anni, e il primo anno delle medie stava andando alla grande. Non avrei mai immaginato che di lì a un annetto, a metà della seconda media, avrei cominciato a cambiare approccio verso la scuola, i compagni. Verso la vita in generale. Sì, fa quasi ridere pensare che un bambino di dodici anni possa in qualche maniera cambiare atteggiamento rispetto alla vita in generale, ma per me fu così, ve lo assicuro. E spesso mi sono chiesto se sia stato anche per colpa, in qualche modo, di quello che successe nella notte della festa del papà di cui sto per raccontarvi.
  Era strana l’atmosfera del paese quella sera, soprattutto nel momento in cui si fece largo in me quella strana sensazione di disagio e presagio. La ricordo ancora alla perfezione, come se l’avessi vissuta soltanto ieri. Faceva caldo per il periodo, il cielo era blu scuro verso est, chiaro e sporcato da qualche nuvola rossiccia e sospesa a ovest. Le urla felici dei bambini riempivano le strade così come il profumo del fuoco. L’avete mai sentito, voi, il profumo del fuoco? Io sì, tutte le notti di San Giuseppe. Era nell’aria, sospeso, anche prima dell’accensione dei falò. E anche adesso, se respiro a fondo, lo sento nelle narici, acre, quasi da farmi lacrimare gli occhi. Me lo porto nel naso, nella testa, nell’anima da quella notte di più di trent’anni fa, e so che non andrà più via.
  Passeggiando per le strade della mia frazione, io e due miei compagni di classe osservavamo i vari mucchi di legna ancora vergini nei cortili delle case, negli spiazzi dei parcheggi e persino nel giardino dell’unico asilo del paese. Passeggiavamo osservando, criticando, salutando. Lo facevamo con la spensieratezza mai fin troppo goduta di giovani ragazzi alla fine degli anni ottanta, sotto una luna quasi piena che ci avrebbe accompagnato per quasi tutta la notte. E lo facevamo, quella sera, con una meta ben precisa: lo spiazzale della chiesa di Ognissanti dove si sarebbe tenuto, così si diceva, il falò più grande di quella notte. Forse dell’intera storia del paese. E, in fin dei conti, così sarebbe stato.
  Ci eravamo già stati nel pomeriggio nello spiazzale della chiesa, durante i preparativi del falò e durante uno scherzo fatto con i ragazzi più grandi che lì per lì mi aveva divertito e fatto sentire uno di loro, ma che col passare dei minuti aveva cominciato a turbarmi sempre di più. Ci pensai, a quello scherzo, anche durante i minuti di avvicinamento alla chiesa e alla sua pira ancora fredda, mentre qualche fuoco era già stato acceso in barba alle attese e all’arrivo del buio totale.
  Arrivammo nel cortile della chiesa verso le sette, quando tutto era ormai pronto e l’anziano parroco – lo stesso che aveva celebrato la mia prima comunione un paio d’anni prima e che, da allora, non mi aveva più visto a messa – dispensava panini, birre e bitter a tutti. Mi avvicinai a lui pieno di vergogna, sicuro dei suoi rimproveri burberi per non essermi praticamente più fatto vedere dopo quella domenica di giugno grigia e piovosa che mi aveva visto protagonista assoluto nella chiesa di Ognissanti. Ma don Armando si limitò a rivolgermi un sorriso, una carezza e un «Come ti sei fatto grande. Ti aspetto qui, eh, quando vuoi...».
  Quel sorriso e quelle parole mi fecero sentire una merda. Un’autentica merda. Ma presi il mio panino ai wurstel, il mio bitter rosso e scappai via verso il falò. La sensazione di vergogna dopo le parole del parroco lasciò dunque spazio a un’inquietudine che lì per lì cercai di allontanare, di tenere a bada. Osservai quell’enorme cumulo di frasche, legna, erba e qualcos’altro, immenso, con un grande palo (un tronco di noce, mi pareva di aver sentito) nel mezzo, a reggere la struttura che sembrava quasi una grossa, mastodontica tenda indiana pronta ad ardere.
  Tra le frasche, le assi e i ceppi di legna si erano creati veri e propri anfratti capaci di ospitare o intrappolare gatti, topi e forse pure qualche cane. Ecco, davanti a quell’enorme struttura di legno m’immaginai di vedere il piccolo cane del mio amico Michele infilarsi nelle sue cavità oscure e rimanerci incastrato.
  E bruciare.
  Chissà se anche il cane di Michele sarebbe bruciato senza emettere un solo fiato, un singolo guaito. Forse soltanto un altro tonfo, un pluff... e poi una piccola stella di carne e pelo che esplodeva nel fuoco. E poi, ancora... fuoco. Solo fuoco. Sì, immaginai con un accenno di sorriso di tenere Billy per la collottola e gettarlo lì, tra le frasche, la legna e qualcos’altro.
  Qualcos’altro che forse, lì nell’intrico, avevo visto muoversi.
  Un topo..., pensai. Un gatto... o un cane. Per davvero...
  «Che c’è?», fece all’improvviso proprio Michele. Era di fianco a me e aveva già finito il suo panino. Diede l’ultimo sorso al bitter e gettò la bottiglietta di vetro tra le tante già accumulate di fianco al falò pronto ad ardere. Il tintinnio della bottiglietta mi fece tornare di nuovo alla realtà, riemergendo da un dubbio denso fatto di senso di colpa, vergogna e speranza che tutto, alla fine, fosse soltanto una mia stupida e insensata paura.
  «Niente, perché?», risposi.
  «Ti vedo strano.»
  Sospirai. Ricordo ancora bene quel sospiro, perché si può ricordare anche un semplice e automatico sospiro dopo oltre trent’anni se in quel sospiro c’è qualcosa. E in quel sospiro c’era tanto.
  «Sicuro?», fece ancora Michele.
  Non risposi. Tornai con lo sguardo tra le frasche e i rami secchi
  (non si è mosso niente)
  e vidi Giovanni, uno degli anziani della frazione, avvicinarsi al falò per dargli fuoco. Altri lo seguirono: quattro in tutto, uno per ogni lato, seppur non definito, della grande pira. Da qualche parte, in lontananza, altri falò erano già stati accesi, e il profumo del fumo e del fuoco era ormai forte, gradevole, quasi come se fosse anch’esso un compagno lì a festeggiare con noi. Intorno a noi.
  Il falò della chiesa ci mise qualche minuto per prendere davvero fuoco. La notte era calata, e la luce del fuoco di quell’enorme e caldo falò bastava a illuminare la gente intorno, intenta a chiacchierare, ridere e mangiare. Con la coda dell’occhio vidi la signora Manuela parlare in maniera concitata con don Armando. Aveva un'aria preoccupata e si portava le mani al viso in maniera quasi automatica, come un robot impazzito intento a ripetere lo stesso gesto meccanico.
  Un sospiro. Ancora un altro, ancora lontano nel tempo, ancora ricordato alla perfezione come se lo avessi fatto adesso, un secondo fa. O come se lo avessi sentito proprio qui, accanto a me, al mio orecchio, a sussurrarmi qualcosa che non voglio sentire. 
  Poi i miei occhi puntarono il falò. Strinsi i pugni.
  «Esce», fece Massimo, il mio secondo compagno di serata. Aveva un sorriso storto sulle labbra che mi fece quasi venir voglia di tirargli un pugno per raddrizzarglielo.
  Un brivido mi percorse il corpo intero, dai piedi alla nuca.
  «È già uscito», disse invece Michele, che continuava a fissare il falò bruciare con le mani in tasca.
  La signora Manuela abbandonò il cortile di corsa. Don Armando tornò ai suoi panini.
  Dopo una mezz’ora di fuoco e chiacchiere orfane della mia attenzione, vidi arrivare nel cortile i tre bulli della frazione. Fino a pochi minuti prima mi ero sentito davvero grande, figo, avrei detto se all’epoca avessi conosciuto quel termine, soltanto per aver aiutato, insieme a Michele e Massimo, quei tre coglioni a fare lo scherzo dell’anno. Che poi, riflettendoci, di scherzo non si poteva neanche parlare. Ma guai a dirlo, guai ad accennarlo davanti ai tre che tutto sapevano e tutto potevano fare. Persino farti sentire un grande.
  Osservai i tre bulletti ridere e scherzare, con nella mano le grosse bottiglie di Peroni che si scolavano sotto gli occhi divertiti del parroco; erano ragazzi, ragazzi grandi, pronti ormai ad andare alle superiori (senza bocciature avrebbero dovuto già frequentarle), e allora una birra, in quella notte così speciale, certo non gliela si poteva negare.
  Il cuore iniziò a battermi forte nel petto. Il falò della chiesa bruciava, come tutti gli altri falò intorno. Cominciai ad avvertire una strana sensazione ai piedi, come un formicolio, come se qualcosa mi stesse dicendo di mettermi in moto, di fare qualcosa, o almeno di avvicinarmi a quei tre idioti e chiedere, così, tanto per tranquillizzarmi.
  Chiedere.
  E tranquillizzarmi.
  «Scusate un attimo...», dissi ai miei due compagni, che se ne restarono lì fermi senza dire una parola. Mi avviai così verso i tre ragazzi grandi e mi fermai a pochi passi da loro.
  «Uè, perticone, che c’è?», mi chiese Luciano osservandomi divertito. Sì, all’epoca ero molto alto per la mia età, anche se di lì a poco mi sarei fermato per aspettare tutti gli altri e scivolare nella normalità.
  Gli altri due mi guardarono con un misto di divertimento e disprezzo.
  «Dov’è?», chiesi a denti stretti, sfidando me stesso, la mia paura, la mia insicurezza, la mia timidezza che, quel pomeriggio, si erano dissolte proprio grazie a quei tre, perché mentre li assecondavo, mentre li vedevo legarlo e spogliarlo stando ben attenti che i grandi, quelli veri, non fossero nei paraggi, io, facendo anche il palo, mi ero sentito uno di loro, mi ero sentito un grande. Mi ero sentito accettato.
  Luciano sorrise gracchiando. «Chi?», mi chiese divertito. Si infilò uno stuzzicadenti tra le labbra e mi fece una smorfia; ecco, quella faccia di merda non la dimenticherò mai più. E non è un caso se, a distanza di tutti questi anni, ogni volta che torno in paese faccio di tutto per evitare di incrociarla di nuovo.
  «Torna dalla mamma. Lo avete fatto il falò a casa vostra, no?», chiese Ernesto.
  No, non lo avevamo fatto. Ma non glielo dissi.
  «Tranquillo, se ne sarà andato. Hai sentito qualcosa, tu, quando è stato acceso il fuoco? Io non ho sentito nulla...», aggiunse Giulio, con una serietà che mi sorprese tanto da spaventarmi.
  Tornai con la mente al gatto. E al tonfo. E alla fiammata all’interno del fuoco. Tornai a guardare il grande falò. E tornai poi da don Armando, lasciando lì quei tre imbecilli e sfidando ancora una volta la mia vergogna.
  «Vuoi un altro bitter? O un panino?», mi chiese il prete.
  Ma io non volevo né l’uno né l’altro. Lo stomaco mi si era letteralmente chiuso, serrato, cementato.
  «Cosa voleva la signora Manuela?», gli chiesi con un filo di voce.
  «Eh?», fece don Armando. Aveva qualche problema d’udito, ma forse, quella volta, la colpa non era stata tutta sua.
  «Cosa voleva la signora Manuela?», chiesi più forte, stando comunque attento a non farmi sentire dai tre bulli poco più lontani, a due passi dal grande fuoco del grande falò.
  «Ah sì! Cercava il figlio, Gianni. L’avete visto voialtri?»
  Il tuffo allo stomaco che provai in quel momento è lo stesso, identico a quello che ho sentito in questo momento mentre racconto questa storia. Mi venne da piangere. Strinsi forte i pugni e rivolsi di nuovo lo sguardo verso il falò ardente, rendendomi subito conto di non riuscire a reggere quella visione per un solo istante di più. Tornai con lo sguardo verso i grossi occhiali di don Armando e...
  E niente. Non ebbi idea di cosa rispondergli.
  «L’avete visto?», chiese di nuovo.
  «No.» Ecco cosa riuscii invece a dire. E se poco prima, davanti allo stesso uomo anziano in tonaca nera, mi ero sentito una merda per non essere andato più a messa dopo la prima comunione celebrata da lui, in quel momento la definizione di merda per autodefinirmi raggiunse nuovi, altissimi livelli. Senza aspettare un solo istante in più girai i tacchi e abbandonai l’affollato cortile della chiesa.
  Vagai per le strade del paese tra fiamme, fumo e risate. E parole. E, a un certo punto, un grido: «Gianni! Gianni!»
  È uscito di sicuro..., pensai mentre attraversavo lo spiazzo dell’asilo con un falò acceso ma che non degnai della minima attenzione.
  Non era stato legato per davvero... si è liberato ed è venuto fuori, pensai ancora.
  Qualcuno mi salutò, ma non risposi a nessuno.
  Impossibile che non se ne sia accorto nessuno... l’avranno visto anche nel pomeriggio, durante gli ultimi ritocchi... le ultime aggiunte di frasche e legna, pensai e ripensai.
  «Gianni! Gianni!», urlavano intanto in lontananza.
  E poi... non si può nascondere qualcuno lì dentro, seppur piccolo, esile... non è un gatto, un cane, no... 
  Cercavo di farmi coraggio, di assolvermi da qualcosa che temevo potesse devastarmi e che, forse, lo stava già facendo.
  Lo stava già facendo mentre il fuoco dei falò bruciava. Il fuoco di quel falò bruciava. E il fumo mi pizzicava naso e occhi.
  Cercai dunque di convincermi che le lacrime che sentivo pronte a cascarmi dalle ciglia fossero dovute a quello.
  Al fumo.
  E al fuoco.
  E non a Gianni, il ragazzino speciale del paese, che non si trovava.
  Gianni, quello strano che non parlava mai, neanche quel pomeriggio mentre i tre più grandi lo legavano, lo spogliavano e gli facevano lo scherzo, davanti alle mie risate, alla mia voglia di essere come loro, accettato da loro, sì... neanche una parola, un lamento, perché, diceva qualcuno, era un bimbo particolare e aveva qualcosa a che fare con gli autisti o qualcosa del genere; e cosa cazzo potessero c’entrare gli autisti con il suo strano modo di essere me lo sono sempre chiesto fino a qualche anno dopo, quando capii che gli autisti, in effetti, non c’entravano niente.
  Neanche una parola, né un lamento: Gianni sembrava quasi stare al gioco. Come me, che però mi trovavo dall’altra parte, occhio attento all’arrivo di un adulto, un vecchio, mentre i tre bulli lo nascondendo ben bene lì dentro.
  Come un cane.
  O un gatto.
  Pluff...
  Tornai quindi di corsa a casa e mia madre, non appena ebbi messo piede nel corridoio, mi chiese: «Hai visto Gianni? È venuto il padre a chiedere...»
  Non la degnai di uno sguardo, né di una parola. Mi chiusi nella mia camera e mi tuffai nel letto mentre lei mi chiedeva urlando con chi avessi litigato quella volta. Mi tirai le lenzuola fin sopra la testa, come per sparire agli occhi di tutti, agli occhi del mondo intero.
  Quella notte non dormii un solo minuto. Piansi, persino. E non per il fumo. Anche se quel fumo, quello di quel falò, lo sentivo ancora, nel naso, nella testa. Dentro. Lo sentivo. 
  Poi arrivò l’alba, e infine il giorno.
  Ma non Gianni.
  Quella mattina la luce del sole non bastò, come spesso accade, per allontanare i fantasmi che di solito ci sfiorano nelle notti buie, insonni e affollate di cattivi pensieri. I fantasmi erano ancora là, anche in classe, quando quella mattina a scuola Gianni non si fece vedere.
  La notizia arrivò soltanto in tarda mattinata, ma non ricordo da chi né in che modo. Quella mattina io, in quel posto, all’arrivo di quella notizia non c’ero più. Non volevo esserci. Non avrei mai voluto esserci, mai voluto esistere. E se il senso di colpa misto alla vergogna mi aveva soltanto sfiorato con le sue unghie scheggiate fino a un istante prima dell’arrivo di quella atroce notizia, subito dopo quelle unghie scheggiate mi si conficcarono nel ventre e non ne uscirono più.
  Anche adesso, mentre scrivo, le sento tirarmi e torcermi le budella. Come quel giorno. Come ieri. Come domani.
  Il grande, enorme falò della chiesa aveva arso famelico quella notte di San Giuseppe di più di trent’anni fa. Aveva arso legna, frasche e qualcos’altro.
  Qualcos’altro. 

Guido Pacitto
2025

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